Chi parla per noi?

chi parla per noi

James Fishkin

The Voice of the People: Public Opinion and Democracy, Yale University Press, 1995.

Edizione Italiana: La nostra Voce, Marsilio Editore, 2003.

Questo interessante saggio dello studioso americano si occupa di due importanti problematiche delle democrazie odierne, ossia la diffusa disinformazione e la distanza che si crea tra il corpo elettorale e le sedi dove vengono prese le decisioni. Come Fishkin illustra, questi due temi sono strettamente interconnessi e portano ad una forma di democrazia molto poco partecipativa. Vediamo quali sono le sue proposte per ovviare a tali difetti e come si possono mettere in pratica.

Nelle società moderne, quando il cittadino/elettore è chiamato ad esprimere le proprie opinioni (sia in una votazione sia in un sondaggio), egli spesso si basa su impressioni e preconcetti derivatigli da un’informazione superficiale, basata sul sentito dire, su telegiornali sentiti a metà e su pregiudizi costruiti. Questa disinformazione è strettamente collegata con il fatto che, a livello più o meno conscio, il cittadino pensa che sia inutile e poco conveniente in termini di rapporto costi/benefici l’informarsi approfonditamente. Prendiamo ad esempio le elezioni: un voto su milioni può cambiare poco o nulla sul risultato finale. Inoltre si percepisce la sfera della politica nazionale come un mondo molto distante da noi, che ci sfiora soltanto in occasione di appuntamenti elettorali o referendum. È perciò almeno comprensibile che si possa ragionare nel modo seguente: dato che il mio peso politico si limita di norma ad una croce su una scheda a scadenza per lo meno annuale (consideriamo qui referendum, elezioni di amministrazioni locali, nazionali ed europee) non vale la pena che io mi informi molto approfonditamente; perciò o non voto o voto in base al poco che so o che ho sentito. Questo insieme di problematiche è definito da Fishkin “ignoranza razionale”: un genere di disinformazione basata su un calcolo, più o meno conscio, che induce le persone ad interessarsi alle questioni in modo sempre minore man mano che queste si allontanano dall’ambito della quotidianità individuale.

Fishkin si chiede se sia possibile nella società di oggi una qualche forma di democrazia diretta che sia tesa non a sostituire, ma anche semplicemente ad affiancare le varie forme di democrazia rappresentativa oggi vigenti nell’Occidente ed in particolare nel suo Paese, gli Stati Uniti, ovviando agli inevitabili difetti delle società odierne, quali il sopraccitato fenomeno dell’ignoranza razionale. Egli propone un metodo, chiamato sondaggio deliberativo (deliberative opinion  poll), che si configura come un ritorno ad una più diretta partecipazione dei cittadini alle decisioni. Vediamo come funziona: si estrae dalla popolazione un campione rappresentativo della collettività (similmente a ciò che è d’uso fare per quanto riguarda i sondaggi d’opinione) a cui si sottopongono alcune domande, normalmente su argomenti dell’attualità politica. Questo gruppo di persone è invitato poi a riunirsi per alcuni giorni in un unico luogo: durante questo lasso di tempo questa eterogenea assemblea viene informata sulle questioni oggetto di sondaggio attraverso materiale informativo, discussioni con esperti e con rappresentanti  politici delle diverse fazioni. Al termine di questa convention al campione vengono rivolte le medesime domande: si constata che spesso le risposte cambiano sensibilmente (con percentuali non irrilevanti) dopo il processo informativo. Questo, a parere dell’autore, è  un esempio della tesi secondo cui l’opinione pubblica arriverebbe a conclusioni molto diverse se fosse adeguatamente informata e fosse più incentivata a partecipare direttamente alle decisioni.

Il sondaggio deliberativo è stato effettuato, secondo la procedura proposta dal politologo americano, diverse volte in varie nazioni tra i quali gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Australia ed ha effettivamente dimostrato che l’opinione dei soggetti in causa può sensibilmente cambiare dopo un’adeguata informazione sull’argomento. Perciò questo, che per ora non deve e non può essere considerato niente più che un esperimento di democrazia diretta, può essere effettivamente un primo importante passo verso una democrazia a più larga partecipazione popolare. Fishkin in particolare vuole dimostrare che questa non può assolutamente prescindere da una adeguata informazione.

Rimangono certamente dubbi su alcuni aspetti. Non è chiaro ad esempio che valore debbano avere i sondaggi deliberativi proposti da Fishkin: possono essere considerati dei sondaggi d’opinione più mirati ed accurati, però se usati su larga scala sono sicuramente dispendiosi e concretamente poco realizzabili: non è sempre facile riunire diverse centinaia di persone per alcuni giorni, organizzare il soggiorno e l’intervento di svariati esperti; oppure possono rappresentare dei referendum in miniatura, in modo da rappresentare in piccolo il pensiero di un Paese intero. Inoltre, per avere un valore maggiore, le assemblee dovrebbero nascere dall’associazione spontanea di cittadini e non essere imposte dall’esterno e remunerate come una prestazione (che è quanto è avvenuto sinora nei sondaggi deliberativi). Questo spingerebbe i cittadini all’associazione spontanea ed alla partecipazione attiva alle questioni politiche, almeno a livello locale. È facile infatti immaginare un’assemblea, una discussione adeguatamente informata ed una deliberazione in un piccolo comune su questioni locali (pensiamo che Rousseau vedeva la democrazia possibile solo in stati di dimensioni contenute). La situazione si rivela invece molto più difficile se c’è la necessità di prendere decisioni a livello nazionale, in cui sembra praticamente impensabile, anche solo pensando al numero di persone coinvolte, prescindere da qualche forma di rappresentanza.

WWV.

La Democrazia del Sorteggio

bobbio
 
Come far partecipare i cittadini al processo democratico, un problema ancora irrisolto. Per correggere il carattere elitario della rappresentanza, già messo in evidenza dagli antichi, ed evitare il rischio di una partecipazione solo degli “attivi”, una possibilità è quella del sorteggio di cittadini per discutere di un problema ed eventualmente decidere, sul modello “giuria popolare”. Intervista a Luigi Bobbio.

Di seguito riporto un intervista a Luigi Bobbio, fatta da Barbara Bertoncin e pubblicata sul sito unacittá.it nel 2006 molto interessante, dove sottolineo alcuni aspetti che trovo importanti, buona lettura!(http://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=1498)

Luigi Bobbio è direttore del Master di Analisi delle Politiche Pubbliche presso il Corep di Torino.

In diversi paesi, per far partecipare i cittadini alla discussione sui problemi e alle scelte del governo delle città, si sta sperimentando anche il metodo di costituire delle assemblee di cittadini estratti a sorte. 

In Italia è ancora una cosa abbastanza inedita. I primi esperimenti li abbiamo fatti noi, come università, a Torino e Bologna, lo scorso marzo.
Quando parliamo di partecipazione, l’obiettivo è sempre quello di includere tutti i possibili soggetti interessati alla questione sul tappeto. Questa è la formula classica. Però ovviamente includere tutti è molto difficile, se non impossibile. Se pensiamo di dover prendere una decisione partecipata sulla fecondazione assistita, per dire, solo in Italia ci sono 50 milioni di persone coinvolte nella questione. Se la decisione riguarda un quartiere, come rimettere a posto la piazza, o ristrutturare un edificio, fare un parco pubblico, magari sono soltanto alcune decine di migliaia, ma sono sempre numeri altissimi.
Da una parte noi avremmo bisogno di mettere dentro tutti, in modo che ciascuno possa esprimersi e dialogare con gli altri, formandosi le idee discutendo. E dall’altra parte c’è un problema di grandi numeri. Come si fa a risolvere quest’impasse? Il metodo tradizionale, quello più usato, è quello della “porta aperta”, cioè di aprire le porte di un’assemblea, di un luogo, permettendo a tutti di entrare e dire la loro…
Questo modello tuttavia comporta un problema molto serio: quando facciamo un’assemblea pubblica (ma vale anche per i forum internet) la questione che viene sollevata da molte parti è quella dell’autoesclusione. Nel senso che non solo vengono poche persone (e questo forse non è neanche male, ci sarà sempre una grande quantità di persone che non ha voglia, non è interessata, non ha tempo per partecipare), ma vengono persone di un certo tipo, che significa più o meno “attivisti”, gente che ha le mani in pasta nella questione, o che è all’interno di qualche tipo di rete.
Questo, che è un nodo fondamentale, è anche uno dei limiti dei bilanci partecipativi, che sono basati appunto sul principio della porta aperta. Senza occuparci di Porto Alegre, che ha una sua specificità (l’hanno inventato lì) resta il fatto che quello che osserviamo nelle repliche europee (allo stato attuale ci saranno 20-30 casi di Comuni che hanno adottato tale modello) è che la partecipazione non è solo limitata, ma è molto connotata.
Prendiamo il caso del Municipio di Roma XI, forse il più interessante rispetto al bilancio partecipativo; è un quartiere enorme, più di centomila abitanti. Ebbene, in un’indagine è stata chiesta un’autocollocazione politica dei partecipanti. Ora, non vorrei dare dati imprecisi, ma mi sembra che più del 50% si è dichiarato di sinistra, il 30% di centrosinistra e gli altri non si sono situati. Ecco, lì è chiarissimo che si sono mosse delle reti associative, di amicizie, di contatti. Parrebbe che nessuno abbia votato il centrodestra, il che non è evidentemente e questo è un problema molto rilevante.
Il modello assembleare poi presenta altri punti di criticità: c’è troppa gente, solo pochi parlano, la maggior parte ascolta, quindi la discussione, di nuovo, è viziata dal fatto che in realtà a esprimersi è una minoranza… Ovviamente l’idea di tenere la porta aperta è molto importante. Decidere che il bilancio di un Comune si fa attraverso decisioni condotte con questa modalità è una novità dirompente perché normalmente i bilanci si fanno a porte chiuse. Non voglio insomma sottovalutare questa opzione perché effettivamente l’apertura è importante, quindi non va disprezzata.
Un secondo modo per garantire la presenza di tutti, o meglio per provarci – parliamo sempre di approssimazioni – è quello di cercare di mettere attorno a un tavolo, non tutte le persone, ma tutti i punti di vista. Per esempio, in un quartiere si tratta di riuscire a coinvolgere le varie figure caratteristiche, famiglie con pochi e tanti figli, anziani e giovani, stranieri e poi associazioni, categorie, gruppi… Questa è una costruzione artificiale abbastanza comune. A differenza dell’assemblea, in cui si apre la porta ed entra chi vuole, qui c’è una sorta di progettazione, di costruzione del processo. Infatti la prima cosa da fare è quella di andare a cercare le persone. Queste cose vanno preparate: bisogna capire chi c’è, che cosa dice, chi sono i leader naturali, chi sono le persone che potrebbero avere delle cose da dire e così via.
Appartengono a questa seconda tipologia i forum di agenda 21. Qui l’idea è di creare una minirappresentazione della società in tutta la sua complessità. L’ambizione è quella di “mettere il mondo in una stanza”.
Chi fa lavoro di quartiere, di comunità sostiene che in generale è difficile far partecipare i soggetti più deboli, che pur avendo delle cose da dire, e delle esigenze, raramente entrano in un’assemblea. Ma io vorrei aggiungere che in queste situazioni è importante far partecipare anche i soggetti forti. Uno dei rischi dei processi partecipativi è che noi mettiamo assieme soggetti deboli, ma i soggetti forti ci sfuggono. Un conflitto tipico nelle nostre città è tra residenti e commercianti sul traffico. Allora, i residenti si riuniscono, discutono, ecc., ma i commercianti non ci sono. Perché? I poteri forti in genere non partecipano volentieri a queste cose, anzi le evitano come la peste, perché hanno altri canali di pressione sui decisori politici e quindi non hanno alcun interesse a confrontarsi con i cittadini; in quel caso dovrebbero dare delle ragioni, giustificare quello che fanno, mentre il vero potere è quello che non deve dare ragioni. Uno ha il potere quando può fare qualcosa senza dover spiegare a nessuno perché lo fa. E questo è un problema serio. Quindi quando si parla di mettere insieme tutti i punti di vista non dovrebbero mancare né i poteri deboliquelli forti. Poi si possono adottare vari accorgimenti perché non ci siano prevaricazioni però, perché la cosa abbia senso, è fondamentale riuscire a portare a confronto i costruttori, le imprese, gli imprenditori immobiliari; non ha senso creare modelli di partecipazione se poi gli attori principali continuano ad avere un canale diretto (ed occulto) col sindaco, con la politica.
Vi è infine una terza possibilità. Quella di sottoporre una questione controversa a un gruppo di cittadini comuni estratti a sorte, che in un periodo di tempo predeterminato, ascoltano le testimonianze di esperti e i rappresentanti dei punti di vista contrapposti, li interrogano e alla fine deliberano una posizione comune. Il sorteggio è un ulteriore sistema per cercare di realizzare un buon livello di inclusione, per avvicinarsi al “tutti”, appunto.

Il sorteggio è alla base di diverse tecniche di deliberazione applicate nei paesi del nord Europa e negli Stati Uniti. Ce ne puoi parlare?

Questi “formati” sono stati inventati nel corso degli anni ’70, senza tuttavia avere alcuna eco, né in Italia né in giro per il mondo. Le prime applicazioni sono cominciate negli anni ’90, negli Usa, in Inghilterra, in Australia, in Germania.
La prima formula è stata la “giuria dei cittadini”, introdotta da Ned Crosby, che ha inventato il seguente formato: si riunisce per 4-5 giorni un numero variabile di cittadini tra i 15 e i 25 e si offre loro un’informazione bilanciata (con i pro e i contro) sull’argomento. In genere si distingue tra informazioni degli esperti, i dati di fatto, e le testimonianze, nel senso di pro e contro, anche se la distinzione non è molto facile da tracciare. Si tratta comunque di avere uno spettro sufficientemente ampio, rappresentativo di quello che si dice su quel problema, dei vari punti di vista. I cittadini, sorteggiati, hanno la possibilità di interloquire e discutere con gli esperti, alla fine si riuniscono e elaborano una raccomandazione su quell’argomento.
Si chiama giuria dei cittadini appunto perché mima il processo penale americano; anche lì c’è prima una fase dibattimentale, dopodiché la giuria si riunisce per prendere una decisione.
Negli stessi anni, del tutto indipendentemente, un professore di sociologia tedesco dell’università di Wuppertal, Peter Dienel, inventa una cosa analoga, “le cellule di pianificazione” (Planungszelle). Il nome non è molto accattivante, suona un po’ sovietico, infatti mi sembra lo stiano cambiando. Anche qui si prendono 24 persone, selezionate in modo casuale, e le si mettono a discutere. Lui ha condotto molti esperimenti, molte cellule, in contemporanea in diverse città, per esempio sulle politiche energetiche; il meccanismo è molto simile.
Una terza modalità è stata inventata in Danimarca alla fine degli anni ’80 per fronteggiare le molte questioni tecnologiche controverse rispetto alle quali gli stessi scienziati si trovano ad avere posizioni diverse (dagli Ogm alle onde elettromagnetiche) su cui però occorre fare scelte politiche. Cioè non parliamo di discussioni puramente accademiche, ma di decisioni da prendere in condizioni di incertezza. Il metodo è simile. Prendono un campione casuale di cittadini e, dopo averli “formati”, gli chiedono di dire che cosa si può fare in queste condizioni: scegliere il principio di precauzione oppure no, ecc.
E’ una pratica interessante: di fronte al conflitto tra scienziati si rimette la decisione a cittadini comuni. Questo è stato chiamato “consensus conference”. Anche qui il nome non è molto felice, dato che non è detto che si debba arrivare al consenso.
Ci sono poi i sondaggi d’opinione deliberativi (Deliberative Opinion Polls) anch’essi attuati in numerosi paesi, in cui l’opinione dei cittadini su un tema dato viene espressa al termine di una discussione condotta da un campione rappresentativo della popolazione.
Questi sono stati inventati da un professore americano, James Fishkin, in polemica con i sondaggi tradizionali che, a suo avviso, non registrano delle opinioni, ma qualcos’altro, perché la gente spesso non ha idee chiare, risponde senza essere informata, si vergogna a dire che non sa, ecc. Quindi l’opinione pubblica che viene fuori dai sondaggi è un qualcosa di molto “sporco”, di poco chiaro. Anche Fishkin propone di mettere assieme cittadini comuni scelti casualmente, dare loro informazioni, rilevando le opinioni prima e dopo. Dai suoi vari esperimenti è emerso un certo spostamento delle opinioni verso una maggiore considerazione per i problemi di equità sociale. Per esempio, in un sondaggio deliberativo sulla criminalità la gente parte da un atteggiamento molto ostile, drastico, per arrivare a uno più cauto. Sul tema degli aiuti economici al Terzo mondo si è ugualmente registrato un inizio molto egoista con un finale un po’ più solidarista, a conferma del fatto che le opinioni delle persone si modificano.
Nella British Columbia, in Canada, un paio di anni fa hanno messo assieme alcune centinaia di persone, cittadini estratti a sorte, per decidere che sistema elettorale adottare. Ho saputo oggi che stanno facendo una cosa simile in Olanda. Lì c’era un problema di insoddisfazione per il sistema elettorale – capita anche a loro. In genere questi esperimenti durano poco, lì invece è durato alcuni mesi e alla fine sono arrivati a definire un sistema elettorale poi sottoposto a referendum, che per pochi voti è stato bocciato…

Recentemente c’è stato il caso clamoroso, di Papandreu in Grecia. Puoi raccontare?

Papandreu, presidente del Pasok, il partito socialista greco, ha deciso di scegliere con un metodo di questo genere (http://www.aueb.gr/statistical-institute/deliberative-polling/index_en.htm) il candidato sindaco di una città. La città è Marousi, circa 70 mila abitanti, situata nell’area metropolitana di Atene, coinvolta anche dalle Olimpiadi. In sostanza hanno deciso di fare le primarie affidando la decisione a cittadini qualsiasi, quindi hanno effettuato un sorteggio casuale di 160 cittadini che per una giornata sono stati coinvolti in questo processo.
I sei candidati socialisti si sono presentati ai cittadini, durante la giornata hanno affrontato 7-8 temi importanti per la città, dai rifiuti, all’università, fino alla gestione post-olimpica degli impianti.
Normalmente le primarie si fanno tra gli iscritti, invece in questo caso si è scelto di farle tra cittadini qualsiasi, senza chiedere nemmeno se si definissero di destra o di sinistra, con l’idea che il candidato sindaco deve andare bene a tutti, deve essere un candidato della società. La cosa interessante è stata anche che, non essendo attivisti, l’85% dei partecipanti non aveva mai sentito nominare nessuno dei candidati, non li conosceva proprio. Curiosamente è uscito come candidato sindaco del Pasok quello meno conosciuto.
Beh, è stata una cosa molto coraggiosa. Papandreu ci stava pensando da molto tempo, aveva cercato di proporre questo modello a vari comuni greci, ma i gruppi dirigenti locali del partito non ne volevano sapere, alla fine è riuscito a trovarne uno…
In altre parole, questa modalità si sta delineando come un’altra via possibile. Anche qui ovviamente ci sono dei problemi di autoselezione, nel senso che quando si selezionano dei cittadini su base statistica (è come se si facesse un campione per un sondaggio), poi la tecnica prevede che gli si chieda se vogliono partecipare e ovviamente non tutti dicono di sì, una buona parte dice di no

Hai parlato di sorteggio casuale e al contempo di campione rappresentativo. Come funziona concretamente la selezione?

Si può fare in vari modi. La tecnica dei sondaggi sceglie a sorte il numero di persone stabilito e poi le intervista. Il primo problema è evidentemente quello dell’autoselezione, aggravato dal fatto che qui non si tratta di rispondere a delle domande, ma di dedicare uno-due-tre giorni all’esperimento.
Un particolare: a questi cittadini viene sempre offerto un compenso, che in genere non è né troppo piccolo da risultare ridicolo né troppo grande da viziare le motivazioni della partecipazione stessa. Dev’essere calibrato. Certo, queste cose costano.
Per selezionare le due giurie interpellate sulle misure contro l’inquinamento da traffico che abbiamo fatto in contemporanea a Torino e a Bologna, noi abbiamo usato il metodo del “campione stratificato”. In sostanza si sceglie un campione, mettiamo di mille persone, e si inizia a chiedere loro se vogliono partecipare. Però tu hai delle caselle da riempire, per così dire.
Nel nostro caso, ad esempio, avevamo deciso di avere metà uomini e metà donne, cosa fondamentale (ma che in genere non succede); inoltre, siccome il problema era il traffico, ci doveva essere un equilibrio tra gli abitanti del centro e quelli della periferia, poi le classi di età. Uno dei problemi enormi della partecipazione è che in genere riguarda solo gli anziani. Coinvolgere le persone mature che lavorano è una vera impresa; non parliamo delle donne con bambini piccoli; anche i giovani sono sempre pochi.
Ecco, con questo metodo possiamo almeno assicurarci una certa rappresentanza demografica. In questo caso noi avevamo deciso di avere un terzo di giovani, un terzo di maturi, un terzo di anziani. E poi ci sono i titoli di studio; tutte le indagini internazionali dicono che la partecipazione cresce col crescere dei titoli di studio. Quindi anche lì siamo riusciti a ottenere tot con la scuola dell’obbligo, tot con diploma, laurea, ecc.
Quindi si possono fare campioni stratificati. Naturalmente all’interno di ogni strato c’è un’autoselezione, però ne hai meno che in tutti gli altri casi e quindi l’insieme di persone diventa interessante.
Nell’esperimento condotto a Torino (http://www.dsp.unito.it/it/giuria_cittadini.asp), i 21 giurati selezionati sono venuti tutti e secondo me abbiamo messo insieme un bello spaccato della società torinese: un po’ di pensionati, ex operai Fiat, ferrovieri, casalinghe, un giovane disoccupato delle periferie, un paio di studenti… gente che non avrebbe mai avuto la possibilità di incontrarsi nella propria vita.

Gli antichi consideravano il sorteggio come la quintessenza della democrazia.

C’è un passo di Aristotele che dice: l’elezione è tipica dell’aristocrazia e il sorteggio è tipico della democrazia. Bernard Manin, in un libro uscito in italiano nei primi anni ’90, La democrazia dei moderni, passato del tutto inosservato, ha scoperto che questa dicotomia sorteggio uguale democrazia, elezione uguale aristocrazia (enunciata per la prima volta da Aristotele), viene ripresa fino al ‘700. Ne parlano anche Rousseau, Montesquieu. Manin ha trovato una bellissima pagina di Guicciardini che dice esattamente la stessa cosa, lui poi era favorevole all’aristocrazia e quindi al sistema elettorale, proprio perché permette di selezionare…
Beh, questo è abbastanza curioso, perché noi consideriamo l’elezione la quintessenza della democrazia. Per noi la democrazia è uguale a elezioni, ma gli antichi non la pensavano così. La ragione sta sostanzialmente nel fatto che con il sorteggio tutti hanno uguali probabilità di ricoprire una carica pubblica o di partecipare a un organismo decisionale. Quindi è il sorteggio il vero strumento egualitario, mentre le elezioni servono a selezionare una classe dirigente, quindi sono uno strumento antiegualitario: servono per selezionare gli aristocratici nel senso dei migliori, coloro che meritano di rappresentarci perché hanno qualche caratteristica che noi non abbiamo.
Ebbene, questo dibattito scompare completamente alla fine del ‘700. In occasione della discussione della costituzione americana il tema del sorteggio scompare e da allora in poi si parla solo di elezioni.
Ovviamente l’obiezione al sorteggio, che ci potrebbe essere anche per le giurie di cittadini, è quella degli “incompetenti”. Manin sostiene che già nell’antica Grecia c’erano dei correttivi. Ad Atene, ad esempio, il sorteggio non veniva fatto tra tutti, ma tra tutti coloro che volevano partecipare (che mettevano il loro nome nelle ceste), quindi c’era prima un atto di autoselezione.
Nel nostro caso, la riscoperta del sorteggio come metodo per far partecipare le persone pone il problema di vedere se funziona.
In base alle esperienze che si sono viste in giro sarei abbastanza ottimista: cittadini qualsiasi messi a discutere se la cavano abbastanza bene e riescono in genere ad arrivare a prendere decisioni non banali, argomentate. Teniamo presente che molti arrivano senza avere idee precise sulla questione.
Si sta discutendo molto del disegno di questi processi: come presentarli alla cittadinanza, come fare interloquire i partecipanti, quanto tempo deve durare… Noi abbiamo già commesso degli errori. Per esempio, la prima volta abbiamo messo troppe testimonianze tecniche, lasciando poco tempo per discutere e quindi, secondo me, la discussione è stata strozzata, con l’effetto di produrre delle decisioni un po’ deboli. Però si può far meglio, questi aspetti si possono affinare.

Come viene stabilito il numero dei sorteggiati?

Ci sono varie possibilità. C’è un “formato” sul modello della giuria dei cittadini che coinvolge 15-20 persone. In questo caso è chiaro che non c’è nessuna pretesa di rappresentatività. Non abbiamo alcuna garanzia che scegliendo altri venti cittadini deciderebbero le stesse cose. Però può essere ugualmente interessante sentire cosa dicono.
Ci sono però dei casi in cui è possibile mettere molta più gente insieme. I sondaggi deliberativi possono arrivare anche a 200-300 persone, offrendo una sorta di rappresentatività statistica, per quel che vuol dire. O ancora esiste la formula del “town meeting del XXI secolo” (http://www.americaspeaks.org), dove puoi mettere assieme parecchie migliaia di persone. Adesso ne faremo uno per la regione Toscana (http://www.regione.toscana.it/partecipazione/); il 18 novembre a Carrara metteremo 500 persone a discutere. Quello che voglio dire è che ci sono tanti possibili disegni e con ciascuno guadagni qualcosa e perdi qualcos’altro. Comunque il numero può essere variabile. In generale quando il numero aumenta la discussione avviene comunque in piccoli gruppi. Fishkin, nei sondaggi deliberativi, fa discutere la gente in tavoli da 10-15 persone al massimo, poi questi si relazionano con gli altri; le formule e gli accorgimenti sono molto vari.
La cosa fondamentale è far parlare cittadini sorteggiati casualmente.

Queste iniziative che implicazioni e ricadute hanno sul piano politico-operativo? A Bologna, la giuria dei cittadini aveva scartato il pedaggio per l’entrata in città, ma poi il Comune l’ha introdotto ugualmente…

Questo è il punto decisivo. La domanda è: queste cose influenzano in qualche modo le decisioni pubbliche? Qui l’esperienza è molto variabile. E’ difficile stabilire una regola perché in realtà dipende dai poteri pubblici. Infatti, in tutto il mondo, questi esperimenti tendenzialmente vengono fatti coinvolgendo le amministrazioni. Nel caso di Torino noi avevamo coinvolto la Regione, la Provincia e il Comune, i tre assessori. Ora, sarebbe assurdo pretendere che le raccomandazioni di una giuria di cittadini siano prese come oro colato, e che quindi diventino vincolanti per i politici, perché esiste la democrazia rappresentativa, e tuttavia è necessario che in qualche modo se ne tenga conto.
In Grecia l’esperimento ha funzionato perché c’era un impegno e Papandreu era fermamente convinto. Dietro insomma c’è un problema di volontà politica, che secondo me è insuperabile.
Le modalità per “tenerne conto” comunque possono essere varie. Da molte parti si stipula un contratto in cui l’amministrazione si impegna a dar seguito alle raccomandazioni che escono da questi forum e se non lo fa a motivare il perché. L’impegno potrebbe anche essere minore: la pubblicazione dei risultati, ecc. L’importante sarebbe cominciare chiedendo alle amministrazioni un impegno specifico di qualche tipo, anche non molto stringente. Noi non l’abbiamo fatto, temevamo che la richiesta di un impegno specifico scritto avrebbe inibito il loro coinvolgimento, magari saremo un po’ più coraggiosi la prossima volta, cercheremo di osare di più.
Comunque questo è il nodo centrale. In Italia, poi, essendo agli inizi, dovremo farci un po’ le ossa; gli stessi strumenti vanno perfezionati. Però naturalmente tutto questo deve poi contare nelle scelte politiche, perché altrimenti la frustrazione rende vana e non più proponibile qualsiasi esperienza di questo tipo. Senza un’adeguata volontà politica, sarà difficile che queste cose vadano avanti.
Questo insomma è il problema numero uno che, del resto, da nessuna parte è stato risolto. Tra l’altro, siccome in Italia c’è una tradizione che vede la politica come corpo separato, sarà particolarmente arduo. I politici diffidano di queste cose perché le vedono un po’ come un terno al lotto, qualcosa che gli sfugge di mano.
Quindi c’è un problema culturale, compensato però, dall’altra parte, dall’urgenza di certe questioni. Oggi i politici hanno bisogno di indicazioni, di consenso, e potrebbe essere per loro conveniente delegare, in parte o del tutto, alcune loro prerogative a un altro tipo di ascolto…
Per esempio, attualmente la Regione Toscana sta preparando una legge sulla partecipazione. Poteva farlo senza far partecipare gli interessati? No, quindi ha messo in piedi un processo di coinvolgimento molto ampio che sfocierà in questo “town meeting” in cui 500 persone discuteranno simultaneamente. Per ora sono stati enucleati i tre temi, su cui il town meeting si pronuncierà in una giornata. Allora, intanto bisognerà vedere se usciranno indicazioni precise. Dopodiché ne terranno conto? Loro si sono impegnati a farlo, del resto, hanno scelto loro di intraprendere questo percorso, comunque cosa succederà lo vedremo.

Oltre ai politici, anche i gruppi e le associazioni “militanti” diffidano del sorteggio…

Infatti. L’altro gruppo dolente, oltre ai partiti, sono appunto i portatori di qualche interesse, gli attivisti, le associazioni, che non vedono di buon occhio questa cosa, perché – è ovvio – soprattutto i gruppi che sono abituati ad avere una concertazione abbastanza stabile con le amministrazioni pubbliche, interpretano tutto questo come un’espropriazione. Anche nella letteratura internazionale vengono descritti numerosi conflitti tra le organizzazioni e queste esperienze.
La tesi di alcuni, molto radicale, è questa: la partecipazione deve essere fatta attraverso cittadini scelti casualmente. I gruppi, le associazioni, ecc. devono comparire semplicemente come testimoni. Cioè non devono prendere decisioni, ma argomentare, cercare di convincere i cittadini. Quindi dovrebbe cambiare il loro ruolo: anziché concordare le scelte con l’amministrazione, dovrebbero limitarsi a cercare di convincere i cittadini.
E’ un rovesciamento molto radicale. Questo potrebbe diventare un metodo normale di prendere le decisioni, ma per ora è troppo presto. La mia posizione in questo momento è: proviamole tutte. Questa strada ha molti limiti, molti difetti. Il principale, secondo me, è che mettendo insieme cittadini qualsiasi, l’aspetto della discussione rischia di essere più di tipo educativo che di vera discussione. C’è un aspetto pedagogico: sicuramente imparano, però probabilmente non fanno in tempo a padroneggiare questioni complesse a un livello tale da poter esprimere raccomandazioni fondate. Quindi ci sono dei problemi, anche grossi.
Del resto, se tu sorteggi a caso, è assai poco probabile che ti imbatta in qualche “militante”, perché sono una minoranza infima della popolazione. Comunque, nel caso uno di loro venga incluso, va benissimo, non è che li devi scartare.
Il punto è che comunque la discussione all’interno delle giurie è guidata, ci sono i facilitatori, si fanno parlare tutti, si fanno fare i giri di tavolo, per cui il militante è messo in condizioni di parità con gli altri. Questi metodi servono anche per ridurre l’asimmetria di informazioni, di convinzioni, così da contenere le possibilità di manipolazione.
A Torino, noi avevamo messo questi 21 cittadini in cerchio; la facilitatrice, Iolanda Romano, ha fatto parlare tutti a turno; la discussione è stata guidata in modo che tutti potessero esprimersi. Malgrado questo, ci sono alcune persone che nella sessione delle domande ai testimoni, che era libera, non hanno mai parlato, risultando le più “deboli” anche nella fase successiva. Quindi abbiamo visto che si riscontrano squilibri evidenti, ci siamo resi conto che alcuni di questi giurati neanche alla fine avevano opinioni precise. Quando gli abbiamo chiesto di dire quali erano le soluzioni che preferivano per ridurre il traffico, alcuni hanno detto: “Non lo dico subito, aspetto che finisca il giro”. In qualche modo li abbiamo messi in difficoltà e questo non va bene. Allora, il problema è: si possono correggere queste dinamiche? Ci stiamo lavorando. Sono tutte cose da perfezionare, da aggiustare. Noi abbiamo interpellato Lyn Carson, un’australiana che da tempo si occupa di queste cose e che alla fine ha scritto un articolo (http://services.bepress.com/jpd/vol2/iss1/art12/) sulle due esperienze, Torino e Bologna, indicando possibili correttivi. Insomma, si cerca di andare avanti, ci si sta lavorando… Il suo articolo è stato pubblicato, insieme a una nostra replica (http://services.bepress.com/jpd/vol2/iss1/art11/), sul Journal of Public Deliberation (http://services.bepress.com/jpd/), una rivista on line nata un anno e mezzo fa, oramai divenuta un punto di riferimento per i vari facilitatori ed esperti che lì mettono a confronto e fanno circolare le loro esperienze.
Tornando alla questione dei “portatori di interessi”, io credo che comunque quel modello continui a essere utile. La discussione tra stakeholders resta preziosissima, deve continuare. Il sorteggio non è sostitutivo. Come dire, dobbiamo provarle tutte. Il fascino del sorteggio è quello di chiamare in causa il cittadino comune, uno qualsiasi. La democrazia in fondo è questo: chiunque dovrebbe poter governare; tutti in linea di principio devono essere in grado di prendere decisioni sul bene comune.

Una delle obiezioni che vi è stata posta è che il sorteggio non rafforza la cittadinanza attiva.

A un convegno a Firenze, alcuni attivisti ci hanno detto: “Questo non è un metodo che rafforza la cittadinanza”. Perché? Perché i cittadini vengono presi casualmente, messi lì per due-tre giorni e poi se ne vanno, quindi non si creano reti, né legami. Questo è sicuramente vero: il metodo del sorteggio non fa crescere la cittadinanza attiva. Se anche queste esperienze si moltiplicassero non si arriverebbe a coinvolgere più dello 0,3% della popolazione, quindi la massa d’urto sarebbe molto limitata. E non è detto che questi diventino poi attivisti. Probabilmente ritornano a fare le loro cose come prima. Pertanto questa è un’obiezione vera.
Voglio però aggiungere una riflessione: oggi si parla molto di cittadinanza attiva; ecco, se si volesse trovare una formula direi che il sorteggio permette la partecipazioni della “cittadinanza passiva”. Questo mi sembra un punto importante. La stragrande maggioranza dei cittadini sono cittadini passivi. Sono automaticamente tagliati fuori (o si tagliano fuori da sé, ma non cambia molto) da tutti i processi partecipativi. Metterli in condizione di pronunciarsi sulle scelte collettive non è una cattiva idea e può riservare sorprese decisamente interessanti.

Capire il movimento

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Leggo Beppe Severgnini sul Time e scuoto la testa. Non è facile capire quando le cose stanno cambiando. Tra tanto fango nell’informazione (giornali, televisioni ecc..), mi sembra di riconoscere anche qualche analisi genuina del M5S, ma spesso sbagliata.

Premetto che sono un simpatizzante ma non un attivista del movimento. Le mie perplessità riguardano l’uso della democrazia diretta all’interno del movimento che non risolve quelli che ritengo essere alcuni dei problemi della democrazia rappresentativa ossia la mancanza di una vera uguaglianza, la presenza dei personalismi, la corruttibilità del sistema, ecc.. Tutto ció è legato all’uso del voto come unico strumento di selezione dei rappresentanti quando ve ne sono di altri e migliori.

Sará perché le mie idee sono molto piú radicali di quelle del M5S che mi sembra semplice capire la sua natura, o almeno credo, ma sono anche convinto che gran parte dei Media, dei politici, dei cittadini e secondo me anche parte di chi il movimento lo ha votato non ha colto la sua vera natura.

Chi chiama gli attivisti come grillini, chi crede che siano poco competenti e facilmente corruttibili, chi crede che Grillo sia un comico, chi crede che il movimento sia un partito e che sia controllabile dall’esterno, chi crede nella politica senza dibattito, in sostanza chi ragiona dentro al sistema.

Suona un po’ complottista ma no lo é. C’è chi dice che per capire il movimento bisogna vederlo da dentro, non sono d’accordo. Secondo me per capire cosa sta succedendo bisogna essere giovani! Giovani mentalmente, aperti a nuove idee, liberi pensatori, ad oggi si potrebbe dire rivoluzionari. Non è un caso che la maggior parte degli attivisti siano giovani.

Quindi cos’è il movimento? Non è un partito, quindi non ha un’organizzazione gerarchica al suo interno e chi è abituato al PD e cerca un Dalema alla guida del M5S, resterá deluso, non capirà mai il movimento. Chi cerca una linea di partito che leghi i deputati o i senatori del movimento a votare contro la loro coscienza,  non ha capito il movimento. Chi crede di rapportarsi con un pensiero unico stile PDL, impazzirà davanti a tante correnti di pensiero. Il M5S è fatto di persone indipendenti.

Quindi chi comanda nel movimento? Grillo non è un parlamentare né lo è Casaleggio. Insieme sono in grado di influenzare fortemente il pensiero di tanti, ma non di tutti. Chi vede in loro la guida sbaglia. Entrambi hanno rappresentato un punto sia di forza che di debolezza ma ora il movimento ha i suoi rappresentanti e qualunque cosa succeda tra Grillo e il movimento, in parlamento d’ora in poi ci saranno delle persone indipendenti. Ripeto, il M5S è fatto di persone indipendenti.

Quali competenze hanno i membri del M5S? Guardo Che Tempo Che Fa e sento Fazio ragionare insieme alla Letizzetto sulla professione del politico. Non basta l’intelligenza e la conoscenza, ci vuole coraggio ad essere giovani per chi giovane non é. A loro come a molti spaventa l’idea che al governo del paese ci siano persone qualunque. La politica è una professione, bisogna sapere dibattere, bisogna capire il paese, bisogna essere competenti nelle varie materie e saper difendere i propri principi. Infatti da anni il parlamento va avanti a fiducie (senza dibattiti), i politici sono ormai considerata una casta e non vivono tra i cittadini e le Iene li ridicolarizzano con le loro interviste e… tralascio i principi.

OK, la realtà è diversa ma in linea di principio il politico dovrebbe essere un professionista: No. A parte la scuola dell’On. Scilipoti non esiste una scuola per diventare onorevoli e se anche esistesse quali sono le competenze che dovrebbe avere un politico? Troppe e troppo varie, tant’è vero che anche i Ministri, coloro che piú di qualunque altro onorevole dovrebbero incarnare tutte queste conoscenze si avvalgono di consulenti esperti. Il politico dovrebbe essere l’espressione dei pensieri e delle volontà dei cittadini, esperto? Si, esperto nell’essere cittadino. Chi meglio dei cittadini dunque?

OK, ma il parlamentare è diverso! Vero, egli ha la responsabilitá di decidere e per farlo occorre che sia competente in economia, quando si vota la finanziaria, in medicina, quando si vota per l’eutanasia, in diritto, quando si vota sul legittimo impedimento, ecc.. Va da sé che un parlamentare cosí non esiste.

Cos’è il M5S? È il movimento che ha portato dei cittadini indipendenti in parlamento.

Forse meno del 5% di quel 25% e passa di voti intende il movimento come me e meno di un quinto degli eletti in parlamento è animato dallo stesso spirito, ma non importa. Il cambiamento ormai c’è.

Quale ruolo per il M5S?

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In che modo il Movimento 5 Stelle ha cambiato il parlamento? In molti modi, sia direttamente che indirettamente ma quel che vorrei analizzare qui è come la sua presenza in parlamento e al senato potrá incidere in futuro.

Non è facile rispondere a questa domanda, anche se apparentemente gli eletti del M5S pur non avendo una struttura partitica alle spalle sembrano essere abbastanza compatti sul fronte della non coalizione. Anche dando per certo la coerenza della loro scelta, rimangono molti gli scenari aperti. Lo scopo di questo ragionamento non è quello di “indovinare” che governo si formerá, quanto durerà, ecc.. Lo scopo è cercare di capire in che modo un gruppo sostanzioso di semplici persone, non legate ai partiti, alle lobby, al palazzo, insomma persone normali che possiamo considerare indipendenti, possano influenzare il funzionamento delle camere.

Ovviamente non si tratta delle procedure di funzionamento, ma degli aspetti politici del funzionamento delle camere. Da questo punto di vista il M5S genererà dei cambiamenti profondi. Personalmente credo che se i deputati ed i senatori del movimento rimarranno indipendenti ci sono buone probabilitá che le camere funzionino meglio. Tali probabilitá sono state valutate in modo piú scientifico da un gruppo di professori dell’Universitá di Catania, nell’articolo “Quanto potrebbe essere efficiente il nostro nuovo senato?”. Le loro conclusioni a tale domanda indicano che il ruolo del M5S sará determinante ai fini di massimizzare l’efficienza del Senato. Per capire cosa intendano per “efficienza” e come l’abbiano calcolata vi invito a leggere il loro articolo.

Dico la mia sul Partito Lotteria

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La viralità del Partito Lotteria ha dato improvvisa e insperata visibilità all’idea di usare il sorteggio in politica. Sebbene non sono i primi ad aver avuto l’idea di creare un partito i cui membri vengono sorteggiati, sono riusciti a mettere su un sito e un’organizzazione credibile e una campagna che apparentemente coglie l’interesse degli elettori, o almeno degli internauti.

557 “mi piace” su facebook in una settimana, sebbene niente di fenomenale, sono 20 volte quanti ne ha ricevuto la pagina di questo sito in un anno. Grazie al fatto che hanno linkato questo sito il traffico qua è impennato.

È una visibilità positiva? Oppure l’accento sull’aspetto goliardico rischia di mettere in cattiva luce l’idea del sorteggio? Il messaggio del sito è ambiguo, da una parte ci si può leggere che “il Partito Lotteria si ispira ai valori politici della demarchia. Crede che il governo del Paese debba essere garantito da cittadini estratti a sorte“, ma poco dopo si legge che “il Partito Lotteria nasce per migliorare la condizione economica dei propri eletti”, in questa direzione va anche il nome del partito. In più molti descrivono la proposta come provocatoria, secondo l’idea che qualsiasi cosa è meglio della situazione attuale. È un modo assai frequente di vedere il sorteggio, e mi dispiace perché non rende giustizia alle sue reali potenzionalità. Non sembra però una linea seguita dai fondatori del Partito Lotteria. Rimane dunque la prima ambiguità: maggiore democrazia o concorso a premi? È vero, non sono necessariamente idee mutuamente esclusivi, ma quale è il messaggio che si vuole dare?

Anche se chiaramente io avrei affrontato un partito del sorteggio in modo diverso, penso che il fatto che la maggiora uguaglianza del sorteggio sia almeno menzionata sia positivo e mi auguro che abbiano tutto il successo possibile.

DEMARCHIA 1.0

In questo post presento quello che ho chiamato DEMARCHIA 1.0, ossia un esempio d’integrazione dell’uso del sorteggio in politica a livello nazionale.
Il sorteggio non é altro che uno strumento, da solo non é in grado di creare alcun ché, ma é uno strumento potente con alcune caratteristiche importanti che portano sempre piú persone a pensare che possa essere integrato nella societá al fine di migliorarla, renderla piú democratica. In particolare trovo che il sorteggio sia lo strumento piú egualitario e democratico che possa esserci per la selezione dei membri del Parlamento. Non altrettanto per quelli del Governo, per i quali trovo siano piú indicati dei tecnici esperti. Trovo in ogni caso sbagliato che le due cose coincidano come succede oggi e auspicherei la separazione dei ruoli tra Parlamento e Governo.

Oggi il parlamentare esprime il voto in rappresentanza di chi lo ha eletto (in teoria) mentre il ministro propone e attua (sempre grazie all’aiuto di tecnici di sua fiducia)  le soluzioni decise dal Parlamento. Trovo che sarebbe piú semplice che al posto del rappresentante ci sia direttamente il cittadino mentre al posto del “ministro che chiede al tecnico” ci sia il tecnico.

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L’evoluzione del Sorteggio

L’uso del sorteggio in politica é vecchio come l’uomo e fa parte della sua storia. Non é facile argomentare approfonditamente l’evoluzione di questo sistema, un pó per la carenza di informazioni, un pó per lacune personali. Tuttavia credo di essere in grado di descrivere quella che puó essere considerata come la probabile storia dell’evoluzione del sorteggio in politica che seppur imprecisa non discosterá molto dalla realtá:

Immagino che le prime forme di governo delle societá derivarono dalla legge naturale del piú forte. Nei Clan i membri piú influenti del gruppo venivano accettati come leader occasionali (nella caccia o per la guerra) in quanto dotati di capacitá tecniche e decisionali superiori e per ció riconosciuti come guida. Inoltre il flusso di informazioni assorbito dal Clan era relativamente modesto e le informazioni facilmente fruibili attraverso contatti diretti con gli stessi membri dai leader stessi.

Con l’allargarsi delle tribú le difficoltá aumentarono sotto ogni aspetto. Nacqueró nuove attivitá, nuove tecnologie e l’amministrazione della societá divenne sempre piú complessa anche per l’incapacitá sia di reperire che di elaborare tutte le informazioni a disposizioni della tribú.

Forse é cosí che venne a formarsi l’immagine del leader come figura distaccata dal resto del gruppo, una figura complessa allo stesso tempo rispettata e temuta, inizialmente divina. Tale posizione richiedette la creazione di un’organizzazione sociale piú soffisticata per la gestione del “potere”, ossia un’evoluzione dell’antica legge del piú forte. La religione, che da sempre ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo ha probabilmente portato a pensare gli stessi uomini che solo un potere superiore fosse in grado di risolvere questo problema, la divina “sorte”. In alcune delle societá che non vedevano la reincarnazione degli dei nei loro Re, puó darsi che il sorteggio fosse usato per la selezione di alcune cariche e percepito come scelta divina.

É probabile che in alcune societá venne deciso di usare il sorteggio proprio per scegliere alcuni incarichi pubblici, ossia che riguardavano l’amministrazione della societá. Immagino che ció possa essere avvenuto a seguito di abusi di poteri da parte dei precedenti Capi o Imperatori e nell’incapacitá di decidere i “migliori” prima dell’avvento di un altro potente la societá abbia lasciato la scelta  al divino, manifestata sotto forma del sorteggio. In questo caso il sorteggio aveva molti pregi, primo fra tutti il rispetto di una “voce superiore”, che almeno inizialmente ed in parte riduceva gli scontri per la lotta al potere. Immagino che queste caratteristiche si tradussero in piú stabilitá e periodi di pace prolungati che portarono altri gruppi ad addottare la stessa tecnica.

Fu cosí che uno di questi gruppi, chiamiamoli gli Ateniesi, divenne una societá complessa ed evoluta che all’interno della sua cultura aveva anche e non solo la conoscenza dell’uso del sorteggio. L’evoluzione tecnica e culturale della societá portó al superamento della dimensione “divina” del sorteggio, che venne riconosciuto anche come strumento antropico utile al conseguimento di molti scopi. Ma fu nelle sue applicazioni sociali che il sorteggio dimostrava meglio le sue proprietá, le stesse che ancora oggi si studiano: la prevenzione della corruzione e del dominio da parte di gruppi di potere, la riduzione dei conflitti ecc… Queste caratteristiche erano ormai note, ma l’avanzata societá greca, che tra l’atro ha inventato la filosofia, fu anche in grado di riconoscere nel sorteggio alcune caratteristiche democratiche tra cui l’uguaglianza tra i membri, il che portava anche ad un aumento della partecipazione con un miglioramento della qualitá della democrazia stessa. Fu l’inizio dell’uso razionale del sorteggio, anche se non totalmente distaccato dalla religione.

Successivamente all’apice d’avanzamento greco, l’evoluzione sociale delle societá seguí un andamento altalenante. Il sorteggio venne storicamente usato in molte occasioni parallamente ad altri metodi di selezione, un esempio sono i comuni rinascimentali italiani dove peró la veste “divina” fu quasi totalmente sostituita da quella “razionale”. In generale, di pari passo con l’evoluzione della scienza anche l’amministrazione della societá seguí un indirizzo sempre piú razionale. Fu forse per questo motivo che nel momento in cui le societá raggiunsero la maturitá sociale greca il sorteggio fu lasciato da parte per l’elezione. L’idea di lasciare alla sorte la scelta di importanti cariche appariva in contrasto con il raziocinio, il che portó a pensare che il voto fosse ugualmente democratico e piú razionale. Montesquieu e Rousseau discussero a tal proposito ponendo le basi della rivoluzione francese che faticosamente fece a meno del sorteggio. Ne é prova l’esistenza di piú proposte di riforme che facevano uso del sorteggio (allora il sorteggio era conosciuto al popolo come uno strumento democratico).

Oggi é possibile comprendere in modo piú profondo le implicazioni dell’uso del sorteggio nella politica, intesa come arte del governo della societá.
É  per questo che l’uso del sorteggio appare ancor piú razionale, grazie alla statistica infatti siamo in grado di comprenderne la caratteristica della rappresentanza descrittiva. Ma c’é dell’altro, c’é la comprensione della necessitá di un elemento, che non soffra dei difetti né goda delle proprietá umane. Uno strumento dunque che non sia né razionale né irrazionale, né buono né cattivo, semplicemente fuori dalla portata dell’intervento umano, estraneo ad ogni logica politica, inattaccabile, incorruttibile, perfettamente egualitario.

Il sorteggio.

Rappresentanza Descrittiva

Per “Rappresentanza Descrittiva” si intende la capacitá propria del “Sorteggio”di riprodurre ogni proprietá della societá all’interno del gruppo di rappresentanti estratti. É possibile dimostrare matematicamente tale capacitá grazie alla statistica. Ma andiamo oltre.

Perché dovrebbe essere cosí importante che i “decision maker” riproducano statisticamente le proprietá della societá? La risposta generale é che un corpo di “decision makers” che “riproduce” la popolazione nel suo complesso possa prendere decisioni che siano meglio relazionate all’intera societá. Ma quali sono esattamente queste relazioni? Come puó un individuo o un gruppo relazionarsi ad un altro in modo positivo. Le possibilitá sono le seguenti:

a) Sono come te.

b) Condivido i tuoi stessi interessi.

c) Rappresento i tuoi interessi.

d) Prendo buone decisioni.

e) Faccio quel che vorresti che facessi.

f) Faccio quello che faresti tu nelle stesse circostanze.

g) Mi hai scelto per prendere queste decisioni.

h) Mi hai autorizzato ad agire in tua vece.

Secondo alcuni ricercatori, nelle rappresentanze descrittive é possibile individuare molte buone relazioni tra i decision maker e la societá, tra cui anche quelle descritte, e quindi giustificare la ricerca di un sistema di rappresentanza descrittiva.

Personalmente trovo che l’intero ragionamento sull’esistenza e la ricerca delle relazioni tra i decision maker e la societá in realtá non abbia motivo di essere fatto. In realtá credo che il concetto sia molto piú semplice.

Ogni persona ha una sua unica personalitá, pertanto é impossibile che esista un perfetto rappresentante. Inoltre quello che il rappresentante dovrebbe essere non é una riproduzione approssimata della volontá popolare ma un vettore autentico delle idee, della cultura e di tutte le proprietá della societá, cosa che al momento i rappresentanti non sono . Per questo motivo credo che sia importante che la societá sia dotata di una rappresentanza descrittiva, perché quello che i rappresentanti dovrebbero rappresentare non sono le persone, ma le loro idee!

Panacea

In questo articolo vorrei esporre una mia preoccupazione circa il modo in cui lo “strumento Sorteggio” é percepito sia da coloro che da anni ne studiano le caratteristiche sia da coloro che invece (magari incuriositi dagli articoli di questo blog) cominciano a ponderare seriamente l’uso del sorteggio in politica. Il sorteggio non é la panacea di ogni male.

Con questa affermazione intendo chiarire alcuni aspetti dell’ampio discorso che inevitabilmente si crea quando si fa riferimento all’uso del sorteggio in politica. Per prima cosa occorre tenere presente che il sorteggio é uno “strumento”, al pari delle elezioni. Il suo uso non presuppone per forza un miglioramento del sistema in quanto puó essere usato propriamente o impropriamente. Inoltre, per quanto potente da solo il sorteggio non basta a garantire la soluzione dei problemi che si prefigge di risolvere quali l’incremento della partecipazione, la riduzione delle possibilitá di corruzione ecc..

Per questo motivo trovo sia importante valutare i vari aspetti dell’uso del sorteggio non solo nella politica ma anche in altri campi in modo costruttivo e complementare e non esclusivo e sostitutivo.

Per ció che riguarda il miglioramento delle attuali istituzioni democratiche grazie all’uso del sorteggio, sono dell’idea che esso non possa essere inserito semplicemente a soluzione di particolari problemi. In poche parole non penso che possa risultare efficiente in un piccolo cambiamento ma che richieda il cambiamento delle condizioni nelle quali é inserito ossia un cambiamento radicale del sistema democratico.

Professione: Politico

Sulla scia delle riflessioni fatte per determinare in che modo il sorteggio possa contribuire a migliorare la politica, vi é un aspetto che non é stato enfatizzato né nel workshop né negli scritti precedenti ossia: la politica, é una professione?

Si tratta di un aspetto che mi riguarda personalmente essendo io stesso un “non esperto”, spesso mi sono chiesto sulla base di quali competenze specifiche potessi esprimermi. É una questione che ha a che fare principalmente con due dei fattori che ho elencato nella lista del precedente articolo, ossia la partecipazione e gli effetti psicologici. Di fatto é opinione comune (tra i cittadini) che la politica sia e debba essere condotta da persone qualificate, esperti in politica. La politica é quindi una professione?

No. La politica non é una professione. Per vari motivi, ma piú in generale perché al politico non sono richieste competenze particolari ma solo un’integritá di pensiero tale da garantire la difesa dei propri interessi e nel caso fosse eletto quella dei suoi elettori. Il sistema elettorale peró porta erroneamente le persone a credere che esistano degli esperti in politica in quanto al momento del voto (idealmente) l’elettore vota in funzione delle opinioni dei candidati ma anche delle loro “competenze”, spesso millantate.

Il sorteggio romperebbe questa errata percezione coinvolgendo direttamente l’intera cittadinanza ed eliminando cosí la figura del Rappresentante Politico.